Come vivono gli adolescenti nelle periferie delle città italiane? Che differenza c’è, in termini di opportunità sociali, economiche ed educative, tra crescere nel centro di una città o nella sua periferia?
Rispondere a domande come queste è tanto complesso, quanto urgente. A partire dalla pandemia, si è molto discusso sulla condizione dei giovani nel nostro paese. Temi come disagio sociale e dispersione scolastica si sono imposti nel dibattito, in forza di un disagio finalmente percepito nell’opinione pubblica. In particolare rispetto alla situazione delle periferie: luoghi lontani dal centro non solo in termini geografici, ma sempre più anche economici, sociali, culturali.
Purtroppo, nell’ambito della campagna Non sono emergenza promossa da Con i bambini, la discussione sul disagio giovanile risente di un’elevata infodemia. Abbiamo cioè accesso a tantissime informazioni, pareri, argomentazioni, e allo stesso tempo a pochi dati su fenomeni la cui possibilità di misurazione resta complessa. In un panorama informativo così articolato è difficile orientarsi; è invece molto facile ricadere in due tendenze di fondo, entrambe deleterie per la condizione di ragazze e ragazzi. L’allarmismo emergenziale, da un lato; la sottovalutazione del fenomeno, dall’altro.
Partire dai dati è l’unico modo per impostare correttamente la discussione, individuare cause e predisporre soluzioni. Quando parliamo di soluzioni, non ci riferiamo ad approcci uniformi, validi per ogni situazione e replicabili in qualsiasi contesto. Al contrario, pensiamo a interventi calibrati sulle esigenze e i bisogni di ciascun territorio.
Per poterlo fare, serve avere gli strumenti per riconoscere i problemi a livello locale: comune per comune, municipio per municipio, addirittura quartiere per quartiere nelle grandi città. Con questo approccio, il rapporto “Giovani e periferie: uno sguardo d’insieme” di quest’anno si focalizza proprio su tali aspetti, anche avvalendosi della preziosa attività di rilascio dati svolta da Istat nell’ambito del censimento permanente, nonché per la Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni delle città e delle periferie.
L’obiettivo è restituire un quadro chiaro delle disuguaglianze che attraversano le città, mettendo in luce dimensioni cruciali come il disagio socio-economico delle famiglie con figli, la condizione di Neet, la dispersione scolastica e l’accesso a opportunità educative e sociali.
Negli ultimi anni, si sono imposti all’attenzione pubblica i segnali di disagio attraversato da tante ragazze e ragazzi. Questo fenomeno, reso evidente dalla pandemia nei mesi di isolamento fisico e troppo spesso sociale, incrocia tante dimensioni diverse.
In primis, riguarda la questione socio-economica per le famiglie con figli. Da circa quindici anni ormai si registra la tendenza per cui più una persona è giovane, più è probabile che si trovi in povertà assoluta.
Una questione particolarmente pressante nelle città, dove il costo della vita rende meno sostenibile per le famiglie il mantenimento dei figli. In media, nel 2024, il 12,3% delle famiglie in cui vivono minori di 18 anni si è trovato in povertà assoluta; la quota sale al 16,1% dei nuclei con minori nei comuni centro di area metropolitana.
I dati sulla povertà e l’esclusione sono il punto di partenza ineludibile, poiché strettamente connessi alla cosiddetta trappola della povertà educativa. Chi cresce in una famiglia con minori possibilità economiche, generalmente ha anche minore accesso alle opportunità educative, sociali e culturali che potrebbero consentirgli di affrancarsi da una condizione di svantaggio.
Ne sono indiretta testimonianza gli esiti educativi, in molti casi differenziati in base all’origine sociale. Il nostro purtroppo resta un paese dove il percorso di istruzione di ragazze e ragazzi tende a riflettere la condizione di partenza. Ciò è particolarmente visibile nell’adolescenza, con la scelta dell’indirizzo di studi dopo le scuole medie. Nel 2024 su 100 diplomati del liceo, in base ai dati Almadiploma, solo 16 erano figli di operai e lavoratori esecutivi. Al contrario, questi rappresentano il 27,9% dei diplomati negli istituti tecnici e oltre un terzo dei diplomati in quelli professionali (33,8%). Le percentuali sono pressoché ribaltate per gli studenti delle classi più elevate, che rappresentano oltre un terzo dei diplomati dei licei e appena il 13,9% dei diplomati nei professionali.
E se perlomeno negli anni, anche sulla scorta degli obiettivi europei in materia, è calata la quota di chi abbandona gli studi prima di raggiungere il diploma, non si può dire lo stesso della dispersione scolastica implicita. Parliamo di chi completa il percorso di studi, ma lo fa con competenze del tutto inadeguate, più vicine al livello previsto alla fine delle medie che a quello dei diplomati. La quota di alunni che arrivano alla fine delle superiori con competenze insufficienti nelle materie di base è nettamente cresciuta durante la pandemia, per assestarsi nell’immediato post-Covid su livelli vicini al 10%. Da allora è cominciato un percorso di calo, anche se l’ultima rilevazione del 2025 mostra che i ritardi del periodo pandemico non sembrano ancora del tutto recuperati.
Per approfondire: Report 2025 Giovani e periferie