Storicamente, il lavoro di cura dei figli è gravato in modo quasi esclusivo sulle madri, mentre di fatto spesso non coinvolgeva i padri. Ancora oggi, sebbene alcuni progressi siano stati fatti e vi siano segnali di miglioramento, i carichi di cura familiare restano del tutto sproporzionati tra i generi.

Un’impostazione che è penalizzante in primo luogo per le donne, che in un caso su 5 si trovano a lasciare il lavoro dopo la maternità. Tuttavia, anche i padri subiscono in qualche misura questo tipo di modelloche in molti casi li vincola a vivere una genitorialità ridotta rispetto alle madri.

In Italia la strada sembra essere ancora lunga: nel 2022 i richiedenti dei congedi parentali sono stati uomini nel 22,1% dei casi, a fronte del 77,9% delle donne. Un dato in crescita rispetto al passato recente (18,8% nel 2017), ma ancora ben lontano da una genitorialità effettivamente paritaria. Un modello che invece potrebbe avere effetti positivi sulla vita dei bambini e su quella della famiglia.

Nei paesi dove i padri fanno maggior uso del congedo parentale, è maggiore la loro presenza non solo nel percorso di crescita del bambino ma anche nei carichi di cura familiare, con conseguenze positive per lo sviluppo del minore e in termini di parità nella vita familiare. A ciò si aggiunga che i paesi con congedi più lunghi riservati ai padri tendono ad avere una quota maggiore di bambini sotto i tre anni nei centri per l’infanzia.

Pochi dati, come quello del tempo dedicato alla cura dei figli, segnalano la persistenza culturale del modello cosiddetto della famiglia male breadwinner. Si intende quel modello familiare in cui i ruoli di genere sono rigidamente distinti tra il padre che lavora e la madre che si deve occupare in modo esclusivo dei compiti di cura familiare.

Tra 25 e 49 anni, le donne che in Italia dedicano oltre 50 ore a settimana alla cura dei figli sono circa un terzo del totale; tra gli uomini meno del 10%. Un quinto delle donne (20,5%) arriva a dedicare oltre 70 ore, contro il 6,3% dei padri. Al contrario, dedicano meno di 8 ore alla settimana ai figli il 17,6% degli uomini e l’8,7% delle donne.

L’incidenza di questo impegno ha dei risvolti anche sul mercato del lavoro: dopo la nascita di un figlio, una donna su 5 smette di lavorare. Con conseguenze negative, da vari punti di vista.

In termini socioeconomici, l’Italia è uno dei paesi europei con la minore occupazione femminile tra madri e donne in generale. Incentivare il loro lavoro è essenziale innanzitutto per garantirne l’indipendenza economica, rompendo gli stereotipi. Ma è cruciale anche per ottenere il loro contributo allo sviluppo del paese, oltre che per arginare il rischio di povertà delle famiglie stesse. Nuclei più solidi economicamente possono essere anche la base da cui ripartire per contrastare il calo demografico. Senza contare che redistribuire il lavoro di cura e sostenere la partecipazione femminile al mondo del lavoro contribuisce a rompere gli stereotipi che vincolano madri e padri a ruoli rigidamente predefiniti.

Alla luce di carichi di cura così diversi, è interessante analizzare l’occupazione maschile e femminile tra i 25 e i 49 anni, composta da poco più di 18 milioni di persone nel 2021. Tra gli uomini, gli occupati sono circa 7,3 milioni su 9,1, con un’incidenza pari all’80,3%Situazione molto differente per le lavoratrici: risultano infatti occupate circa 5,6 milioni di donne su quasi 9 milioni con età compresa tra 25 e 49 anni. Un’incidenza pari al 62,9%.

Differenze che però sono più marcate in diverse aree del paese: se questa divergenza è minore al nord (nel dettaglio 13,5 punti per il nord-est e 13,8 per il nord-ovest) e al centro (14,3), segna i valori maggiori nel mezzogiorno: nelle isole è pari a 22 punti mentre nel sud a 24,5. Aspetto dettato da una maggiore disoccupazione femminile che in quelle aree del paese si assesta rispettivamente al 47,7% e al 45,8%.

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